La segretaria generale CISL Scuola interviene sulla questione reclutamento, sul numero di assunzioni e sulle incogruenze del decreto sostegni-bis.

Sul reclutamento serve allargare lo sguardo. Uscire dalla sterile polemicarsi "concorsi sì concorsi no"

Se non si vuole che la discussione sul reclutamento dei docenti si riveli inconcludente, ostaggio di polemiche e banalizzazioni, è necessario inquadrare il tema da una prospettiva diversa e più ampia, evitando che il fuoco dell’attenzione si concentri, come quasi sempre accade, sulle procedure selettive, non a caso ripetutamente oggetto di modifiche, ignorando ciò che avviene a monte e a valle delle stesse. Col risultato di conferire un valore assoluto alle prove, come test di per sé sufficiente a garantire la buona qualità professionale di chi le supera, o a sancire l’incapacità di chi non le passa, arrivando persino a considerarla irrimediabile, tanto da inibire al “bocciato” la partecipazione a un successivo concorso.

Ammesso e non concesso che le prove per esami siano l’unico modo per adempiere al dettato costituzionale, e tralasciando l’accenno che nell’art. 97 della Costituzione vien fatto a casi in cui la legge possa prevedere diversamente nel reclutamento di pubblici dipendenti, è davvero impossibile non considerare i rischi di aleatorietà, in positivo e in negativo, insiti nello svolgimento di test soggetti a variabili, casualità e imprevisti che conferiscono loro, inevitabilmente, un carattere di maggiore o minore episodicità. Basterebbe considerare, come avviene in ogni concorso, lo scarto talvolta macroscopico nel numero di ammessi o respinti a seconda delle diverse commissioni esaminatrici; per rimanere all’ultima procedura concorsuale riservata, cui era ammesso chi avesse alle spalle almeno tre anni di servizio, l’alto numero di bocciature allo scritto ha lasciato perplessi molti, e tra questi anche qualche dirigente scolastico, convinto sostenitore del reclutamento attraverso concorso, dopo avere constatato con sorpresa l’insuccesso di alcuni docenti, da più anni in servizio nella sua scuola, dei quali aveva potuto sperimentare sul campo la preparazione, la capacità e la bravura.

Ecco perché è indispensabile ampliare lo sguardo, evitando di focalizzarlo su un evento episodico che assurge impropriamente al rango di sentenza definitiva. Non si può non guardare cosa avviene prima del concorso, e ignorare cosa succede dopo. Tanto più in un sistema che per poter funzionare ricorre in modo massiccio al lavoro precario, lasciando che si protragga molto spesso per anni – in spregio alle direttive comunitarie - l’insegnamento con contratti a tempo determinato. È proprio malintesa una meritocrazia che ci vorrebbe far credere come la buona qualità professionale di cui la scuola ha bisogno possa essere garantita semplicemente dal vaglio operato attraverso meccanismi più o meno rigorosi di selezione, la cui necessità si invoca, tuttavia, solo dopo anni e anni di lavoro. Disponibili a sfruttarlo, ma non a valorizzarlo.

Il grande assente in molti ragionamenti sul reclutamento è il supporto formativo di cui quasi mai si parla e che sarebbe invece necessario prevedere da subito – quale che sia la modalità con cui è stato assunto - per chiunque sia chiamato a svolgere una funzione così delicata e importante come l’insegnamento. Specie per chi vi accede con titoli di studio curvati pressoché esclusivamente sulle competenze disciplinari, ma in generale per tutti: impensabile che un docente non abbia, alla sua prima esperienza anche solo di supplenza annuale, il sostegno di un tutor, che lo assista e lo guidi, partecipando anche alla necessaria valutazione delle sue attitudini. Osservandolo lavorare, non semplicemente correggendo “una tantum” un suo elaborato. È sbagliato pensare che quel dirigente rammaricato della bocciatura al concorso di alcuni suoi bravi insegnanti, cosa di cui non si capacita, potesse conoscerli (e valutarli, insieme al comitato che esiste in ogni scuola) molto meglio di chi ne ha corretto una sola e infelice prova?

A dire il vero, già a legislazione vigente i limiti e l’affidabilità non assoluta del meccanismo selettivo sono attestati dal fatto che la conferma in ruolo, per chi vince un concorso, avviene solo al superamento dell’anno di formazione e prova. Ciò in quanto il Legislatore suppone che al concorso possano partecipare, giustamente e auspicabilmente, anche le leve più giovani, ancorché prive della benché minima esperienza di lavoro. E si potrebbe aggiungere che la professione docente – come sempre più avviene in ogni ambito lavorativo, ma nella scuola a maggior ragione – non può fare a meno di ricorrenti momenti di aggiornamento, nell’ambito di una formazione in servizio il cui carattere strutturale e sistematico andrebbe sostenuto attraverso opportuni e sostanziosi investimenti. Se questo non avviene, l’obiettivo di assicurare al sistema un apporto costante di elevata qualità professionale difficilmente può essere perseguito: impossibile dunque, e insensato crederlo, che possa farlo il mero superamento di un concorso. Ecco perché un dibattito sul reclutamento che si concentri ostinatamente sul fare o non fare i concorsi finisce per essere di nessuna utilità. Prima ancora di esaminare in dettaglio tutte le implicazioni e le sfaccettature che ogni proposta necessariamente contiene, prima di affrontare – come prima o poi si deve – il complesso intreccio di interessi, attese, aspettative con cui comunque ci si dovrà misurare, proviamo ad allargare lo sguardo: individuiamo una gamma più vasta, più articolata, più pertinente, più adeguata a valutare un ventaglio ricco e coerente di elementi che abbiano concreta rilevanza sul piano professionale, mettendo alla prova le competenze e non solo le conoscenze, le attitudini, la creatività e la versatilità di un lavoro sempre più impegnativo, delicato (di “cura”, insomma) di chi vuol scegliere per sé il compito di insegnare ed educare. Su tutto questo apriamo confronti veri.

Roma, 24 maggio 2021


Insegnanti, il rischio non è di assumerne troppi, ma troppo pochi. Dichiarazione di Maddalena Gissi

Si ripetono in queste ore prese di posizione in cui si paventa il rischio di un eccessivo numero di assunzioni nella scuola, giudicato incoerente con la prospettiva di un decremento demografico che farebbe diminuire il fabbisogno di insegnanti e aprirebbe la strada a possibili situazioni di esubero. Sono considerazioni che lasciano stupefatti, perché bastano poche cifre a dimostrare che le preoccupazioni manifestate sono del tutto prive di fondamento. Già lo scorso anno si è visto come su oltre 80.000 assunzioni autorizzate (pari al numero di posti vacanti) sia stato possibile farne solo 20.000 circa, per mancanza di aspiranti nelle graduatorie da cui si poteva attingere. Clamoroso poi il flop nelle assunzioni su posti di sostegno, per la mancanza di personale in possesso del prescritto titolo di specializzazione, conseguibile solo con percorsi universitari inopinatamente attivati in misura nettamente inferiore al reale fabbisogno e con forti disomogeneità sul territorio nazionale.

In prospettiva, sono i dati anagrafici riscontrabili fra il persona docente a dirci come il rischio di esuberi sia del tutto improbabile, se si tiene conto che sono più di 300.000 gli insegnanti con oltre 54 anni di età, il che fa pensare a un esodo per pensionamenti che si manterrà piuttosto consistente nei prossimi anni.

Ma anche altri dati ci offrono indicazioni interessanti, smentendo ulteriormente che si vada incontro a un eccesso di assunzioni: il rischio è invece che avvenga il contrario, ossia che i criteri individuati nel decreto sostegni bis per l’accesso alle modalità di reclutamento restringano di molto il numero di quelle che sarà possibile effettuare. Se avrà diritto a essere nominato, oltre agli aspiranti in GAE e GM, solo chi è in prima fascia GPS con tre anni di servizio, degli attuali 100.000 posti vacanti se ne potranno coprire molti meno dei 70.000 di cui in questi giorni si parla.

Da qui la necessità di modificare quei criteri, se non si vuole ripetere il flop dell’anno scorso e ritrovarsi ancora con una massa enorme di precariato.

Il ragionamento da fare in prospettiva, in ogni caso, non può essere quello di una meccanica correlazione tra numero di alunni e numero di docenti, a meno che non vengano smentiti tutti i ragionamenti, e i conseguenti impegni, sulla necessità di un rinnovato assetto del sistema di istruzione che tenga conto di alcuni obiettivi indicati precisamente nel Patto per la Scuola. Il contrasto alla povertà educativa e un accresciuto livello di competenze, punti cardine della strategia indicata in modo condiviso nel Patto, presuppongono infatti un ampliamento del tempo scuola, lo sviluppo di attività laboratoriali a supporto di un insegnamento non meramente trasmissivo, una dimensione ottimale dei gruppi classe, evitando situazioni di sovraffollamento incompatibili con la realtà di molte strutture scolastiche e con la personalizzazione della didattica. E si potrebbe continuare a lungo per dimostrare come le politiche degli organici richiedano un approccio meno semplicistico di quello che si limita a correlare aritmeticamente posti e popolazione scolastica: quel che occorre è una visione lungimirante, nella quale si punta a mettere le scuole in condizione di programmare più efficacemente le proprie attività, dal recupero di eventuali debiti (esigenza che sicuramente investe il prossimo anno scolastico) al rinforzo delle eccellenze.

Se in prospettiva occorre recuperare una modalità di ragionamento meno superficiale e più coerente all’obiettivo di ridare centralità alla scuola, nell’immediato le stesse esigenze comportano sostanziose modifiche a un decreto che diversamente potrebbe rivelarsi inadeguato ad affrontare i problemi che pure il Governo si dice intenzionato a risolvere. Se le disposizioni restano quelle, ci attende un anno scolastico in cui le criticità riscontrate negli anni precedenti potrebbero riproporsi e anzi aggravarsi.

Roma, 25 maggio 2021


Decreto sostegni bis, troppe le incongruenze col Patto e qualche bandierina ideologica da rimuovere

Le misure sul reclutamento inserite nel decreto sostegni bis sono in parte da rivedere, in parte da cancellare. Di positivo c’è solo l’apertura a un modello non incentrato esclusivamente sui concorsi per esami, ma aperto all’utilizzo di un secondo canale, per titoli, nel quale viene riconosciuta e valorizzata anche l’esperienza di lavoro. L’idea che i concorsi per esami sarebbero l’unica modalità obiettiva e trasparente di selezione, senza la quale avrebbero campo libero l’arbitrio e i favoritismi, è profondamente sbagliata: altrettanto obiettive e trasparenti sono infatti le modalità con cui vengono compilate le GPS, ossia le graduatorie dalle quali il decreto prevede si possa attingere per assunzioni destinate ad una conferma in ruolo al termine dell’anno scolastico. Bene dunque che si sia rimosso un tabù, ora è necessario proseguire su questa strada per una riforma complessiva del reclutamento, che coinvolga le GPS di II fascia e attivi la formazione iniziale abilitante, come indicato chiaramente nel “Patto per la scuola al centro del Paese” sottoscritto il 20 maggio. Peccato, tuttavia, l’inopinato inserimento di un esame finale che, intervenendo successivamente al giudizio positivo già espresso dal dirigente e dal comitato di valutazione, è solo la bandierina di un insensato accanimento ideologico, che in quanto tale andrebbe senz’altro rimossa.

Tra le altre cose da rivedere c’è anche il requisito dei 36 mesi di servizio richiesti per essere assunti in ruolo dalle GPS: in questo modo si riduce enormemente il numero delle possibili nomine, rispetto a un fabbisogno di personale che è particolarmente elevato per i posti di sostegno. Gli aspiranti in possesso del titolo di specializzazione hanno alle spalle percorsi di studio lunghi e impegnativi, che offrono una buona garanzia di qualità professionale. Si faccia in modo che possano diventare risorse stabili a disposizione delle nostre scuole per programmare e gestire in modo ottimale le loro attività su un versante delicato e importante come quello dell’inclusione.

Tra le cose da cancellare, sicuramente la norma che impedisce di partecipare a un concorso chi non ha superato quello precedente. Viene da chiedersi chi abbia escogitato una forma così grave e inquietante di penalizzazione, che rende irreversibile e irreparabile anche il più banale incidente di percorso, come può capitare per mille ragioni diverse in una prova concorsuale. Davvero non se ne comprende la ragione: se fosse quella di evitare procedure sovraffollate, sarebbe facile rispondere che, nonostante il moltiplicarsi di concorsi (uno ogni due anni negli ultimi sei), lo scorso anno si è potuta coprire solo una minima parte dei posti disponibili per mancanza di aspiranti nelle graduatorie. Dunque un divieto che è al tempo stesso odioso e stupido.

Inaccettabili anche le invasioni di campo che il decreto compie su materie soggette a regolazione per contratto, come la mobilità del personale. Bruttissimo segnale dopo che, anche nel Patto, si sono fatte solenni dichiarazioni di apertura al dialogo, al confronto, alla valorizzazione delle relazioni sindacali.

Questo è il dato che maggiormente sorprende e preoccupa, cioè la palese incoerenza con gli intenti concertativi che sono alla base del Patto per la scuola e che costituiscono il presupposto necessario per uno sviluppo di tutte le sue potenzialità. L’auspicio è che ne abbiano piena consapevolezza il Ministro, che direttamente lo ha firmato, e il Governo che gliene ha conferito mandato.

È chiaro che faremo tutto il possibile perché in sede di conversione in legge del decreto si intervenga con i necessari emendamenti; incalzeremo su questo le forze politiche, ma prima di tutto l’Amministrazione e il Ministro, che non possono non rendersi conto di tante incongruenze, alcune veramente macroscopiche, che mettono a rischio il buon avvio dell’anno scolastico: si pensi alla sconcertante previsione di un avvicendamento a fine ottobre tra supplenti e vincitori di concorso. Chi ha scritto quelle norme sa evidentemente poco o nulla di come funziona realmente la scuola, quali siano i suoi tempi e le sue esigenze, a partire dalla continuità didattica. Si faccia di tutto per non compromettere sul nascere il buon lavoro avviato con la firma del Patto.

Roma, 26 maggio 2021